Famiglia, economia e valore aggiunto - CdT

Nel tempo i rapporti fra fami­glia e lavoro sono parecchio cam­biati: prima della rivoluzione indu­striale erano pra­ticamente due facce della stessa realtà, con geni­tori e figli attivi nell'agricoltura o nell'artigianato. Con la Rivoluzione Industriale si afferma la separazione tra il posto dove si lavora e
il luogo della vita famigliare, nel pri­mo si produce e nel secondo si consu­ma: ecco così la famiglia trasformata in un anello del mercato. A questo punto chiediamoci se veramente la famiglia sia solo un consumatore o se, invece, non abbia anche un ruolo di «produttrice di valori» altri che quelli normalmente riconosciuti dal mercato, e la risposta è: assolutamente sì! La famiglia genera capitale umano, capi­tale relazionale, educazione e, non da ultimo, attraverso la costituzione di reti di fiducia, genera un capitale so­ciale. In parole povere è necessario ricono­scere alla famiglia il primo posto nella produzione di valori sociali e, parten­do da questo assunto, risulta chiaro che, come è giusto sostenere e finanzia­re le imprese, sostenere la famiglia è ancora più giusto.
Se per il mercato (inteso come scambio puramente economico) vale il princi­pio di specializzazione, cioè ognuno si dedica al compito per il quale ha le migliori competenze, per la famiglia invece deve valere il principio di com­plementarietà, perché ai figli occorro­no entrambe le figure genitoriali e per­ché in questo modo soltanto si ricono­sce il bisogno che ognuno ha dell'altro. Per favorire la presenza di entrambi i
genitori si potrebbe rendere più flessi­bili gli orari di lavoro: invece di comin­ciare alle otto di mattina e finire alle 18 si potrebbe pensare a un orario aperto, in cui per esempio la mamma che lavora inizia alle 10,
prendendosi così il tempo per occuparsi dei bambi­ni e il papà finisce alle 16.30 ritaglian­dosi il tempo di stare con i figli.
Purtroppo in questo ambito, le politi­che degli Stati e dell'UE, sembrano es­sere in ritardo e praticare un principio che potremmo definire di conciliazione tra lavoro e famiglia. Promuovono cioè l'adattamento della famiglia al lavoro in modo da permettere alle donne di essere professionalmente atti­ve. Scopo senza dubbio condivisibile, dato che negli ultimi trent'anni le don­ne hanno raggiunto livelli di formazio­ne eccellenti e che hanno tutto il diritto di mettere in pratica il sapere e le espe­rienze cumulate in anni di studio.
In realtà però, queste politiche che, a prima vista sembrano favorire la fami­glia, non fanno altro che sostenere la crescita dell'individualismo e della produttività delle imprese che, dopo aver scoperto
che le donne sono più «brave» degli uomini, vedono la fami­glia come un ostacolo. Come esempio mi rammento il racconto di una mia conoscente alla quale, al momento di essere scelta da una grande impresa internazionale per uno sviluppo di carriera, era stato chiesto se avesse in­tenzione di costruirsi una famiglia!
Per favorire le famiglie dobbiamo dun­que staccarci da queste visioni e ognu­no degli attori sociali deve fare la sua parte: le imprese potrebbero cambiare l'organizzazione del lavoro, le famiglie dovrebbero unirsi per diventare un in­terlocutore delle aziende e lo Stato do­vrebbe intervenire a livello legislativo: infatti, perché sulle leggi si conducono studi di impatto ambientale e non se ne fanno di «impatto famigliare»?