Venerdì, 07 Giugno 2019 12:27

La filantropia come azione sociale - CdT

In una tiepida sera di giugno, una sessantenne del Canton Soletta, passeggiando placidamente lungo la riva di un ruscello, scorge un uccellino ferito che annaspa su una sporgenza dell’argine. Nell’intento di soccorrerlo, scivola nel corso d’acqua e viene trascinata della corrente vorticosa per alcune centinaia di metri. Diversi passanti odono la sua accorata richiesta di aiuto, ma uno solo degli astanti si getta vestito nell’acqua fredda, riuscendo a riportare a riva la signora ferita e debilitata, ma grazie al suo coraggio e alla sua prontezza di spirito, ancora in vita. L’improvvisato salvatore, un mastro artigiano della zona, non è che uno degli, ad oggi, 8.577 eroi, premiati in Svizzera dal 1912, anno di costituzione della Fondazione Carnegie per i salvatori di vite umane. Dal 2013, ho l’onore di rappresentare il Canton Ticino all’interno del Consiglio di Fondazione della Carnegie, che dipende in linea diretta dal Consiglio federale. Questo caso è emblematico dell’afflato di benevolenza verso il nostro prossimo, che caratterizza tutte le storie selezionate da noi membri del Consiglio di Fondazione, che esaminiamo annualmente i salvataggi svizzeri, per premiare i più meritori. Solo casi, in cui, come da norme statutarie, il salvatore metta gravemente a repentaglio la propria incolumità per salvare la vita di un’altra persona. In questa vicenda c’è un salvataggio nel salvataggio. Il coraggioso artigiano ha interrotto il tran tran della propria vita, per metterla in gioco a beneficio di una totale sconosciuta in difficoltà (da dichiarazioni della polizia, la donna sarebbe certamente annegata senza il suo intervento); la beneficiata, si è messa in pericolo, per seguire lo stesso istinto, presa da sollecitudine verso un altro essere vivente. Al simposio da noi organizzato la scorsa settimana, studiosi internazionali di filantropia si sono riuniti con 160 ospiti da ogni parte del mondo, per ricordare il centenario della morte di Andrew Carnegie, il piccolo (di statura) grande uomo che con la sua fede incrollabile in se stesso e nei propri valori, tramite le sue molteplici fondazioni (tra cui la Carnegie Hall di New York e la pinacoteca e il museo di storia naturale a Pittsburgh) e il decisivo sostegno a centinaia di biblioteche e istituti scolastici, ha influenzato il corso della vita di milioni di persone. Il tema del convegno era il futuro della filantropia e la domanda centrale che aleggiava era una: «Cosa farebbe oggi Andrew Carnegie?»
Per darvi risposta, sono state ventilate diverse teorie, forti anche della presenza della pronipote del grande mecenate, la signora Linda Hill e dell’ex-industriale bernese Hansjörg Wyss, che pochi anni orsono ha venduto le sue imprese per venti miliardi di franchi, per dedicarsi esclusivamente alla filantropia. Una cosa è sicura: si sarebbe compiaciuto nell’ascoltare questo racconto.
Proveniente da una famiglia scozzese, costretta ad emigrare per sfuggire la miseria negli anni “della grande fame”, Carnegie è riuscito, partendo da uno stipendio iniziale come operaio di 1 dollaro e 20 al mese, costantemente reinvestendo al meglio le proprie risorse umane e finanziarie, a diventare l’uomo più ricco della sua epoca e uno dei più illuminati mecenati della storia del mondo. Di filantropi ce ne sono stati tanti, suoi contemporanei, prima e dopo di lui. Ciò che scolpisce il suo nome a caratteri cubitali sull’albo d’oro della storia, più dell’entità delle somme devolute, fu il fatto di teorizzare che per i ricchi sussista un obbligo morale alla beneficenza. La sua frase più celebre fu «chi muore ricco, muore in disgrazia», vale a dire: è una vergogna non reinvestire le proprie ricchezze a favore dei propri simili.
Carnegie aveva chiaro come l’atto eroico fosse la scelta di un momento: essere nel posto giusto, al momento giusto e fare la cosa giusta. Con il suo sguardo lungimirante, artefice del suo incredibile successo, vedeva come un gesto di benevolenza verso il prossimo, fosse questo un uccellino ferito o una persona in pericolo di vita, rimbalzasse il proprio buon esempio all’esterno, propagandolo a macchia d’olio in un concatenarsi virtuoso di cause e di effetti. Mettere in gioco la propria vita per salvarne un’altra, significa, spesso inconsciamente, cogliere al balzo la palla lanciata da Carnegie e dai salvatori di vite che ci hanno preceduto e ribatterla in un nuovo atto di eroismo, di benevolenza e di edificazione degli altri.
Per questo, alla vigilia della prima guerra mondiale, il nostro ebbe l’idea di devolvere parte della propria immensa fortuna, per fondare in 11 paesi (tra cui la Svizzera) la Fondazione per i salvatori di vite umane. Da sempre convinto propugnatore della pace, ben intuiva come un’idea di questo genere (contrastare l’orrore delle carneficine belliche, incentivando azioni positive che mettessero in luce l’esatto opposto), incarnasse il massimo che un singolo individuo potesse fare per contrapporsi all’imminente catastrofe.
Ai nostri tempi, quando la ricchezza mondiale tende ad accentrarsi sempre più nelle mani di singole famiglie o gruppi di potere, è lampante come il tema predicato da Carnegie della responsabilità sociale nella gestione dei grandi patrimoni (oggi mutato il quadro socio-economico, si parla di responsabilità d’impresa più che riferirsi al singolo magnate) sia più che mai drammatico e attuale.
È imperativo un impegno sociale che non sia, come ha sottolineato il prof. Henry Peter, direttore del Centro di filantropia dell’Università di Ginevra, una distribuzione di soldi ad innaffiatoio ma piuttosto un investimento sulle capacità degli altri (venture philantropy), per permettere a potenziali risorse già a disposizione, di crescere e moltiplicarsi. Filantropia del futuro da intendersi, dunque, non come assistenzialismo fine a sé stesso, ma come azione sociale integrativa a quella dello stato. Amministrata conciliando lo slancio verso l’altruismo con uno sviluppo strategicamente strutturato per obiettivi, ottimizzando gli sforzi in vista della sostenibilità negli anni a venire, come se si trattasse della gestione di un’azienda moderna, che porti in sé il concetto della responsabilità sociale d’impresa.
 
L'opinione di F. Denti
Ultima modifica il Venerdì, 07 Giugno 2019 12:38