Lunedì, 11 Maggio 2020 11:40

Covid: quando il medico di famiglia fa la differenza - Il Federalista

Mentre oggi in tutta Europa si è aperta la fase due, si tentano i primi bilanci sulla drammatica gestione dell'emergenza. Fondamentale, nel bene e nel male, appare il ruolo giocato dalla medicina territoriale. Il confronto tra Veneto e Lombardia. E in Ticino? Come ha funzionato il raccordo tra medici di famiglia e ospedali? Il parere di Franco Denti, presidente dell'Ordine dei medici. Come usciremo dalla crisi? La domanda imperversa. Una riflessione di Claudio Mésoniat.
 
La lezione di Lombardia e Veneto
 
Due regioni "virtuose", due regioni a guida leghista. Eppure una gestione diversa del territorio e della sanità può fare la differenza. In alcuni casi, tra la vita e la morte. Stiamo parlando di Lombardia e Veneto, messe alla prova dalla pandemia: cosa non ha funzionato nella gestione lombarda,
considerata l’avamposto europeo in quanto a economia e qualità delle cure sanitarie?

Andiamo con ordine.

Le due regioni del Nord Italia vengono colte alla sprovvista dal coronavirus praticamente in simultanea, con i due focolai di Vò Euganeo e Codogno. Istituite le zone rosse e di fronte al fatto che l’epidemia iniziava a diffondersi, i sistemi sanitari si sono attrezzati in fretta. La differenza sostanziale però l’ha fatta la collaborazione tra grandi ospedali e realtà sanitarie presenti sul territorio. Per capire come mai, bisogna fare un passo indietro al 2015, quando il Governo guidato da Matteo Renzi obbligò le regioni a tagliare in modo massiccio i posti letto e poi al 2017, quando per via della cosiddetta "riforma Maroni" le aziende sanitarie locali (ASL) vennero accorpate e ridotte significativamente di numero. Oltre ai tagli alla sanità, in questi ultimi tre anni si è assistito ad un generale accentramento delle risorse su grandi istituti e ospedali, a discapito di ASL, piccoli ospedali o medici di famiglia. Tuttavia il Veneto è riuscito a mantenere un buon equilibrio tra offerta ospedaliera e servizi presenti sul territorio: un dato su tutti è quello riferito all'assistenza domiciliare integrata (ADI) che in questa regione raggiunge il doppio delle persone rispetto alla Lombardia. Ed è qui, in questo diverso equilibrio tra reti locali e grandi strutture, che sta la vera differenza.
 
I diversi approcci nell'emergenza
 
Fin da subito è apparso chiaro che bisognava rintracciare la rete di contagio per poter capire in che direzione andare. Il Veneto, contrastando le indicazioni che venivano da Roma, da subito si è mosso per il tracciamento dell’infezione sottoponendo a test anche preventivi un numero di cittadini molto superiore a quello di altre regioni e della stessa Lombardia, includendo anche le persone asintomatiche e la loro rete di contatti. Il primo aprile si contava una media di 23 tamponi ogni mille residenti in Veneto, mentre il Lombardia il dato era dimezzato: 12,1.

In Veneto poi si è ricorsi prevalentemente all'isolamento domiciliare dei positivi, corredato da un sistema di vigilanza attiva con monitoraggio stretto dove i sistemi informatici hanno fatto la differenza. In Lombardia (dove la medicina territoriale non esiste praticamente più), si è privilegiato il ricorso alla rete ospedaliera e dei pronto soccorso per la raccolta dei
pazienti sintomatici, provocando l’intasamento delle strutture che tutti ormai conosciamo. Lo ha spiegato bene il dottor Alberto Aronica in una intervista a Il Sussidiario.net: “La condizione di emergenza sanitaria generata dalla rapida diffusione del Covid-19 ha fatto emergere i limiti della ospedalizzazione come unica soluzione per la gestione del paziente positivo in presenza di un numero elevato di pazienti da prendere a carico, aumentando anche la diffusione del contagio, perché l’ospedale è conduttore di infezioni. Curare a casa i pazienti lo avrebbe evitato”.

E’ lo stesso medico, presidente della Cooperativa Medici di Milano, a spiegare che servirebbe una vera rivoluzione culturale che spinga i medici a lavorare in modo associativo e non più isolato, presenti sul territorio ma con un coordinamento comune. E’ questo a mancare in Lombardia oggi: il modello lombardo costruito ai tempi di Roberto Formigoni – dove i medici di famiglia avevano un ruolo centrale sia nella prevenzione sia nella convalescenza dei pazienti - è stato smantellato. Di quell'epoca rimane l’ottima alternanza tra pubblico e privato la cui “concorrenza benefica” ha fatto nascere eccellenze in campi come la cardiochirurgia o l’oncologia (non a caso da tutta Italia e da molti Paesi europei ogni anno arrivano centinaia di pazienti). Tuttavia come spiega Aronica, “non è in questo modo che si cura il 70% del fabbisogno sanitario che è la cronicità. Ipertensione, diabete e tanto altro non hanno bisogno di grandi strutture ma di gestione sul territorio”. E questa negli ultimi anni – complici scelte errate di Governi e Regione – è venuta a mancare.

Basta questo a spiegare il dramma lombardo? Forse no. Del resto non si può ignorare che i primi focolai sono avvenuti in contesti territoriali molto diversi. Vò Euganeo è un’area rurale di circa 3mila abitanti, Codogno, il cremonese e la Val Seriana bergamasca sono territori densamente abitati, altamente urbanizzati e caratterizzati da una fitta rete di interconnessioni produttive. Come hanno riportato diversi media locali, il numero altissimo di casi e focolai e la natura esplosiva dell’epidemia in Lombardia hanno certamente ostacolato gli sforzi iniziali messi in campo e a tutt'oggi nessuno può avere la certezza che la strategia privilegiata dal Governatore Luca Zaia in Veneto sarebbe stata gestibile in modo analogo in altre regioni.

Quello che è innegabile è che il sistema sanitario lombardo dovrà essere ripensato, salvaguardando le eccellenze che gli sono riconosciute a livello
nazionale ed europeo. Questo non può e non deve giustificare gli insensati attacchi politici ricevuti dal Governatore lombardo Attilio Fontana nel pieno della pandemia (forse perché la Lombardia è una storica roccaforte del centro-destra). Certamente però, a bocce ferme, bisognerà tirare i fili di questi mesi drammatici. E studiare nuovi approcci perché stragi come queste non avvengano più.
 
Ticino. Evviva il medico di famiglia
 
Guardando indietro, alle prime fasi dell'epidemia che ci ha colti tutti di sorpresa e impreparati, in molti Paesi si è presa meglio coscienza che il sistema sanitario non è fatto solo dalla medicina ospedaliera, ma anche da
quella sul territorio e soprattutto dalla loro interdipendenza. "Fa piacere che vi sia in Ticino qualcuno che ha colto questo aspetto un po' dimenticato" ci dice al telefono Franco Denti, presidente dell'Ordine dei medici del Canton Ticino. "Durante questo periodo la medicina del territorio ha fatto un grande lavoro, ha permesso agli ospedali di sopportare meglio lo tsunami Coronavirus".
 
Come ci si è mossi? "L'Ordine dei medici si è dotato di una struttura di crisi con il presidente e i responsabili dei 5 circoli regionali, da subito abbiamo cercato di dare ai medici il materiale di supporto. Questo molto presto: durante la settimana di carnevale l'Ordine aveva già acquistato 20'000 mascherine e camici da dare ai medici di famiglia e ai pediatri negli studi medici". Secondo Denti si è anche intervenuti in fretta per ampliare l'offerta, e "ad inizio marzo era già stato raddoppiato il servizio di guardia medica per la notte e per i giorni festivi, così come le disponibilità degli studi che accettavano su base volontaria visite d'urgenza nei giorni lavorativi".
 
In questo senso la medicina sul territorio "da fine febbraio fino a circa metà marzo ha assorbito più di 3000 visite, un numero più che triplicato rispetto alle circa 700 degli anni scorsi, alleggerendo notevolmente le strutture ospedaliere".
 
Secondo il presidente dell'Ordine dei medici inizialmente "l'attenzione delle autorità è stata concentrata a torto o a ragione sulla riorganizzazione degli ospedali" e i medici “di base” si sono trovati a doversi muovere un po' in solitaria. "Poi per fortuna dopo due o tre settimane è stata accettata l'idea dei Check Point" ci spiega, riferendosi alle tendine situate nei centri urbani per accogliere i casi sospetti Covid e permettere un eventuale test a chi avesse dimostrato seri sintomi della malattia, con lo scopo di liberare gli studi medici dai pazienti covid e permettere loro di visitare gli altri pazienti in sicurezza e tranquillità.
 
Ma aggiunge: "Quello che voglio dire è che magari si sarebbe potuto avere più considerazione per chi sta sul territorio sin dall'inizio, ma in realtà pian pianino i rapporti sono lentamente migliorati così che alla fine posso affermare che c'è stata una bella collaborazione tra i medici sul territorio e i vari ospedali". Non solo, grazie alla Federazione delle ambulanze (FCTSA) si è anche proceduto a collocare come operatori del numero del Picchetto medico alcuni dottori, ciò che ha permesso a molti pazienti di avere una prima consulenza già al telefono e al servizio di indirizzare il paziente a un pronto soccorso o ad un Check Point (che dalla loro creazione hanno visitato già 1300 pazienti).

Per Franco Denti la priorità è sempre stata mettere in sicurezza i dottori e gli studi, ricordando che "lo sforzo anti-covid è comunque costato due morti tra i medici di famiglia e più di una decina ricoveri in ospedale, il più giovane dei quali di soli 40 anni. Tra i medici ospedalieri non mi risulta si siano registrati decessi".

A livello di scambio di informazioni tra medici di famiglia vi è stato un cambiamento? "Direi che il miglioramento a questo livello è stato evidente specialmente con i medici di guardia e i presidenti dei circoli che tenevano il contatto col territorio. Con loro abbiamo inaugurato un aggiornamento giornaliero su quanto accade sul terreno e teniamo sempre una videoconferenza settimanale".
 
Il medico di famiglia è generalmente il primo punto di contatto, "perché le battaglie si vincono sul territorio, gli ospedali sono la retrovia. Se la medicina sul territorio è presente abbiamo meno "feriti" in ospedale. Purtroppo" ci dice concludendo "in Lombardia i medici di famiglia sono stati lasciati allo sbando, senza materiale di protezione, parliamo di più di 170 medici morti. In Veneto dove la medicina sul territorio è più forte le cose sono andate meglio. Direi che anche in Ticino e in generale in Svizzera -l'organizzazione è nella sostanza la stessa- la medicina del territorio è stata fondamentale nel reggere l'urto epidemico negli gli ospedali. Poi l'ospedale ha fatto il suo lavoro in modo eccellente".
 
Promemoria per uscirne migliori
di Claudio Mésoniat
 
Il bilancio della pandemia in Ticino è nero: oltre trecento morti in un paio di mesi, quando la normale influenza non superava da decenni i due, tre, massimo venti decessi annuali. È ancora troppo presto per fare previsioni sui danni economici e sociali, ma vien da piangere a pensare alle migliaia di disoccupati che il covid19 lascerà sul terreno e alle centinaia di negozi, bar, ristoranti e altre piccole e medie aziende che non ce la faranno a sopravvivere. Sono ferite profonde, che segneranno a lungo il nostro Paese.
Tuttavia durante queste settimane di intensa mobilitazione glocale anti covid, vissute nella trincea assegnatami, quella di una clausura digitale più interconnessa che mai, mi succedeva di annotare di tanto in tanto, prima mentalmente e poi su qualche pezzo di carta, dei pensieri improvvisi su quanto di buono stava accadendo sia pure in mezzo al sottosopra drammatico della pandemia. Ho ripreso in mano quegli appunti e ora provo a trascriverli con un po’ di ordine.

Prima di tutto la dolorosa vicenda può essere vista come un colpo di gong che ci ha risvegliati da una sorta di sonnambulismo esistenziale in cui l’orgoglio tecnologico e la corsa al consumo fine a se stesso (pagato, altrove nel mondo, con la fame) ci stavano cullando da decenni, convinti di essere invulnerabili, come società e come individui.

Covid19 è stata l’irruzione della morte, non più come prospettiva lontana nel tempo e nello spazio ma come quel “sibilo della falce” a pochi passi da me (da te, dai nostri cari), di cui con espressione icastica, da film bergmaniano, ci ha testimoniato una figura popolare come quella del direttore del Film festival, Marco Solari. È umano sopravvivere nella smemoratezza (coltivata) della nostra condizione mortale, della nostra finitezza?

Altrettanto finito e vulnerabile è il nostro ambiente naturale e sociale: è umano saccheggiarlo anziché coltivarlo e proteggerlo? Se pensavamo di essere “sani in una società malata”, socialmente ed ecologicamente, ci ha pensato l’incolpevole piccolo virus a infliggere una tremenda umiliazione al nostro orgoglio tecnologico, incurante degli scarti di ogni genere seminati sui percorsi delle sue magnifiche sorti e progressive. Non si tratta adesso di arrampicarsi sui vetri per riuscire a imputare la pandemia ai cambiamenti climatici (nessi con l’inquinamento atmosferico sembrano invece possibili, come pure quelli con il maltrattamento degli animali), tanto più che il virus dei pipistrelli ha spostato la nostra attenzione dalle apocalissi future a uno scenario presente e luttuoso di caos globale.

Ma ci sono altre scoperte interessanti in mezzo alla tragedia. Per esempio la percezione di essere tutti sulla stessa barca, non solo nel proprio Paese o paesello ma su tutta la terra. Oltre metà della popolazione mondiale confinata in casa, mentre tutti i centri nazionali di ricerca che sorreggono la medicina nel mondo riscoprono la necessità di lavorare più intensamente insieme (con le inevitabili smagliature sovraniste). Anche le economie nazionali si ritrovano ormai talmente interdipendenti da non consentire a nessuna di esse di rimettersi in moto senza che anche le altre si rialzino in piedi. Giusto riflettere sui risvolti negativi delle filiere produttive globali (leggi delocalizzazioni spinte dalla pura ricerca di manodopera a basso costo). Ma l’autarchia appare ormai un’utopia passatista (se non in settori strategici).

Andiamo avanti. La politica. Confesso un sogno: che finita l’emergenza rimanga quel senso del bene comune che ha dominato gli attori della politica a tutti livelli esecutivi (dal CF ai CdS ai Municipi). Tutti tesi alla creazione di soluzioni di compromesso e fedeli alla collegialità (“Remiamo tutti nella stessa direzione!”), legislatori e partiti compresi, in attesa del loro turno. Ho già nell'orecchio il rombo dell’indignazione corale che la mia confessione avrà suscitato: questo sogno è la fine della democrazia, l’opzione inconfessata per un’oligarchia politico-tecnocratica (la dittatura di virologi e loro simili, per l’eternità). Calma. Stavo solo dicendo che la politica ai tempi del covid ha messo fuori gioco per un momento le patologie che da troppo tempo hanno ridotto la politica a “partitica”, dove tutto, consenso o dissenso, viene calcolato in funzione dei dividendi elettorali e prima ancora di varie forme di carrierismo e di esibizionismo personale. Se la politica pre-covid aveva vertiginosamente perso credibilità era anche a causa di questi virus. Il confronto anche duro tra ideali e interessi diversi, la dialettica parlamentare tra partiti sono componenti irrinunciabili di una democrazia sana. Tutto dipende dalla stella polare, dallo scopo che guida confronto e dialettica. Se ad esempio il gioco politico torna a ridursi alla ricerca, a tutti i costi, del “colpevole”, del “nemico”, “dell’untore”, che sia dentro le mura di una casa per anziani o oltre una frontiera, siamo daccapo.

Avevo già fatto notare, in dialogo con Gabriele Gendotti, che l’emergenza ci ha “costretti” a riscoprire, nella medicina come nell'assistenza, la necessaria complementarità tra pubblico e privato. Ribadisco che la sussidiarietà, iscritta nel patrimonio genetico del sistema politico svizzero, nutre la fiducia in uno Stato robusto ma capace di stare al proprio posto.

Per questo fatico a comprendere i timori di derive autoritarie che alimentano in questi giorni la discussione pubblica sulle deroghe concesse alle autorità politico-sanitarie per consentire il tracciamento dei nostri movimenti, indispensabile per arginare la diffusione del virus. C’è un sottofondo lievemente cospirazionista e antiscientifico nell'allarme lanciato contro uno “Stato di polizia”, specie di Grande Fratello che si prepara a controllare ogni nostro movimento. Inviterei, come altri hanno già fatto, a prendere coscienza, piuttosto, del fatto che i veri Grandi Fratelli, che conoscono tutto di noi, dai gusti agli interessi alle tendenze politiche, e vendono i nostri profili a milioni di aziende lucrando miliardi, sono già all'opera e abitano da un’altra parte, per la precisione nella Silicon Valley o in altri Stati USA come anche in Cina e si chiamano Google, Amazon, Alibaba ecc.

Usciremo migliori o peggiori da questa pandemia? Dipende solo da come ci stiamo dentro adesso, con gli occhi lealmente aperti sulla realtà oppure con lo sguardo annebbiato dalla paura di dover cambiare, dall'ansia che tutto torni come prima.
Ultima modifica il Martedì, 12 Maggio 2020 12:25